Un recente articolo pubblicato sulla rivista Science, apre la strada e nuove, future forme di terapia per chi soffre del morbo di Parkinson.
Infatti i ricercatori dell’università americana Northwestern, sotto la giuda di Dimitri Krainc, hanno scoperto la sequenza di eventi tossici che causa danni ai neuroni dopaminergici, i neuroni danneggiati dal morbo di Parkinson.
I ricercatori oltre ad avere scoperto la sequenza di eventi che causa i danni ai neuroni, hanno anche scoperto una sostanza capace di interromperla e quindi di bloccare il progredire delle malattia.
A dare il via a questa sequenza tossica che porta alla distruzione dei neuroni sono infatti i danni ossidativi ai neurotrasmettitori della dopamina.
Quando i neuroni dopaminergici muoiono nell’area adibita la movimento, si sviluppa la malattia.
In particolare, l’area che subisce maggiori degenerazioni è l’area del cervello chiamata “sostanza nera” responsabile dei meccanismi di gratificazione e dei meccanismi di controllo del movimento.
in generale la perdita dei neuroni è una caratteristica che avviene in tutte le persone con l’invecchiamento; ma nei malati di Parkinson, la perdita dei neuroni dopaminergici è massiccia e precoce e le cellule restanti non riescono a compensare, portando ad avere sintomi come tremori e lentezza nei movimenti.
Si stima che il morbo di Parkinson sia la seconda malattia degenerativa neurale più comune al mondo.


i ricercatori hanno intuito che la chiave per fermare lo svilupparsi ed il progredire della malattia è agire precocemente su questi neuroni somministrando un antiossidante specifico, che migliori le funzioni delle cellule e ne prevenga in danneggiamento.
Sicuramente è un approccio nuovo che potrà in futuro essere usato per studiare delle terapie preventive efficaci.
Anche se al momento la maggiore problematica è come identificare futuri “malati” quando il morbo di parkinson è ancora ad uno stadio iniziale; poiché in uno stadio precoce la malattia non produce sintomi chiari e riconoscibili.
Da questo punto di vista, dovranno sicuramente venire in supporto dei medici i test genetici per la familiarità con la malattia e le immagini del cervello fatte con specifici esami diagnostici.
fonte: news.northwestern.edu
qui l’articolo completo, in inglese
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